sabato 31 agosto 2013

ELENA CATTANEO E IL CORAGGIO DELLA SOLITUDINE




Ecco le pagine de "Il paradosso del successo" che avevamo dedicato alla scienziata Elena Cattaneo, appena nominata da Napolitano senatore a vita per meriti scientifici, insieme a Renzo Piano, Carlo Rubbia, Claudio Abbado. Per esigenze editoriali, queste pagine sono state tagliate dal libro. In questa speciale occasione ci fa piacere però riproporle nel nostro blog.

E’ un’esploratrice di deserti, Elena Cattaneo. Il deserto è un luogo familiare a questa figura di scienziata che è abituata a vagarvi da sola, al massimo con un piccolo gruppo di compagni fidati, come Ulisse sulla sua sconfortante distesa di acque marine.

A Ulisse somiglia Elena Cattaneo quando, giovane sposa, lascia a casa il marito per recarsi a studiare a Boston: per una volta, il ruolo di Penelope non ce l’ha una donna. “Eppure sono ancora felicemente sposata.” Ci dice ridendo. Ma quali sono i deserti di cui stiamo parlando? E che cosa spinge Elena a inoltrarvisi ?

Sin da bambina, la futura scienziata è affascinata da ciò che è piccolo ove per “piccolo” si intende “tutto ciò che non vedi e non raggiungi con i tuoi sensi di persona umana”. “Piccolo” dunque, per Elena, fa tutt’uno con “invisibile”.

Quest’attrazione si traduce ben presto in un interesse estremamente concreto: quello per le cellule cerebrali. Elena è colpita dal fatto che molecole invisibili abbiano un impatto così determinante sul funzionamento del cervello. Una “microsensazione”, come la chiama lei, la porta a decidere che quello che succede all’interno della testa  è più interessante di quanto accade nel cuore o in qualunque altro organo.

In particolare, Elena si interessa alle staminali: allora, siamo nella seconda metà degli anni Ottanta, comincia a esserci qualche “micropubblicazione” in proposito.

Le staminali sono in sostanza cellule il cui destino non è ancora stato deciso e che, attraverso un processo denominato “differenziamento”, possono originare vari tipi di cellule diverse, comprese le cerebrali.

La comunità scientifica comincia a intravedere la possibilità di utilizzare il loro potere per curare malattie come il Parkinson o l’Alzheimer.

Suppergiù in quel periodo, Elena Cattaneo si imbatte in una persona che sarà fondamentale per le sue scelte di vita.

A un convegno conosce infatti Nancy Wexler , scienziata della Columbia University che studia la Corea di Huntington, malattia ereditaria causata dalla degenerazione di neuroni situati in specifiche aree del cervello. Il nome viene da choreia -“danza” in greco - perché le persone che ne sono colpite camminano inizialmente in modo strano, come se ballassero.

La Wexler, che ha avuto la famiglia devastata da questa malattia – sua madre ne è morta - ha messo in piedi una vera e propria crociata per combatterla.

Dal canto suo, Elena sta studiando proprio le staminali di quell’area del cervello all’origine dei neuroni che degenerano in presenza del morbo.

Alla Wexler, quando lo viene a sapere, non par vero: “Ma allora,” esorta la collega italiana “perché non lavori anche tu sulla Corea di Huntington?”

“Con i suoi abbracci e i suoi enormi sorrisi, mi conquistò alla causa” ricorda Elena.

 “In me scattò una scintilla che è tuttora accesa. Mi resi conto che il lavoro dello scienziato non finisce al bancone del laboratorio ma ha un impatto potente sulla sulle speranze e sulla crescita civile e sociale di interi Paesi del mondo. Che là fuori, oltre la tua stanzetta e il tuo microscopio, c’è qualcuno che ti guarda e che spera in te, nella tua capacità di trovare una cura.”

Divenuta conscia di quanto il micro impatti sul macro, l’invisibile sul visibile, Elena si si getta dunque con passione nella nuova avventura. La sua fiducia è messa però ben presto a dura prova.

Quello che Elena sta facendo infatti è ancora più difficile che cercare una cura: è cercare la strada che, una volta trovata, permetterà di cercare la cura: “era come voler andare sulla luna ma senza sapere nemmeno dove fosse la luna” ricorda. “ Prima di tutto, dovevamo individuare il “marcatore” ovvero la molecola in grado di identificare, “marcare” appunto, le cellule che volevamo studiare. A quel tempo, il novanta per cento degli scienziati nel mondo studiava la malattia a partire dal gene malato, quello che aveva già subito la mutazione dando luogo alla proteina tossica.

Noi, io e i miei colleghi del laboratorio, prendemmo una strada diversa: decidemmo di partire dal gene sano, quello che abbiamo tutti. Per capire come fa qualcosa a funzionare male, ritenevamo indispensabile sapere prima come fa a funzionare bene, la conoscenza della fisiologia era il presupposto per capire la patologia. Ci sembrava talmente logico… Eppure a un congresso, dopo che ebbi presentato le nostre prime ricerche, sentii un partecipante commentare sottovoce con un altro che “era una storia inutile”: così fu considerato il nostro esordio. “

Ma Elena e i suoi non si fermano. Anzi, vanno oltre. Come mai, si chiedono, possediamo tutti questo gene che ci mette a rischio di sviluppare una malattia così terribile? A cosa ci serve esattamente? Per trovare la risposta, studiano la sua evoluzione e scoprono che è nato ottocento milioni di anni fa. “

Tutti ci prendevano per pazzi” ricorda Elena. “ Non solo studiavamo qualcosa che sembrava inutile ma eravamo disposti a tornare indietro di milioni di anni per capire come si era formato… alla fine abbiamo avuto ragione noi: quel gene sano si è rivelato importantissimo per i neuroni che poi degenerano nella malattia perché è da lui che dipende se stanno bene o male: noi abbiamo compreso come fa a farli star bene e da cosa dipende il manifestarsi della Corea di Huntington. Abbiamo capito che da quel gene è dipesa la comparsa dei primi sistemi nervosi: minimi all’inizio e poi via via sempre più complessi. Quello è stato un momento fenomenale per il nostro laboratorio:..”

Qui Elena Cattaneo si ferma nel racconto: è commossa e ha bisogno di una pausa.

Poi riprende con ancora più energia: “mi sono resa conto di come l’essere nel giusto oppure no non dipende da quante persone sono con te. Non è la massa che fa le ragioni, sono gli argomenti. E se ho gli argomenti, non ho paura di stare per anni da sola in un deserto dove ti giri e non vedi nessuno. Conosco pochi ricercatori coraggiosi, i più preferiscono aggirarsi per deserti già popolati: si inseriscono tra le maglie di ciò che altri stanno scoprendo, magari prendono la ricerca di un altro e cambiano una parola, che so, invece di studiare la tal proteina nel fegato nel topo, studiano la stessa proteina nel fegato del… topolino! “

Scoppia in una risata la nostra scienziata e in questa risata da ragazzina si scioglie la commozione di poc’anzi. Sembra una donna che non ha paura di niente ma, non appena glielo facciamo notare, subito si schermisce. “Le uniche paure che non ho sono quelle “inutili” ribatte. “Per esempio, non ho paura di espormi o di fare brutta figura.”

“E come mai?”

“La scienza può sviluppare la capacità di vivere con intensità le nostre idee quasi a prescindere dal fatto che siano nostre. Perciò se ho ragione sono contenta: giusto per un’ora o due. Ma se ho torto, non mi sento distrutta o come se avessi subito chissà che. Semplicemente cambio la mia posizione.”

“E quali sono invece le paure “utili”?”

“Ogni giorno ho paura di sbagliare” ci confessa “anche in qualcosa di molto “micro”. Ma è un timore che fa parte della costruzione, che mi spinge a cercare continuamente argomenti, per cui voglio tenerlo scritto sul muro a caratteri cubitali.”

Nelle parole di Elena finora è emersa la fede, è emersa l’avventura. Ma emerge anche un senso impagabile di libertà: la libertà dalle paure che lei chiama “inutili” le  permette di denunciare soprusi – come appropriazioni indebite di denaro pubblico - anche quando la sua voce, tanto per cambiare, si leva come quella del Battista nel deserto. Le permette perfino, nel 2009, di intentare causa al governo Berlusconi.

In quell’anno infatti, ministero della Salute indice un bando di ricerca per valutare nuove idee sulle cellule staminali e sul loro potenziale terapeutico: pane per i denti di Elena e del suo laboratorio. Ma c’è un ma: il testo del bando specifica che dal concorso è escluso ogni tipo di studio condotto sulle staminali embrionali.

Il divieto, che non viene nemmeno motivato, cade come una scure sulle aspettative e le speranze del gruppo: le staminali embrionali sono infatti proprio al centro delle ricerche dirette da Elena. Del resto non si tratta di cellule qualsiasi: le staminali embrionali, definite “le madri di tutte le staminali” sono in grado di produrre tutti i duecentocinquanta tipi di cellule specializzate del nostro organismo, ne possiedono ogni segreto.

Benché inspiegata, la proibizione è tutt’altro che inspiegabile. Le staminali embrionali si ricavano infatti dalla blastocisti, il prodotto del concepimento in vitro, e proprio la blastocisti è al centro di un’annosa questione: questa microstruttura di un centinaio di cellule, grande meno di un millimetro, è o non è una persona?

Secondo la Chiesa Cattolica e il governo italiano sì. Secondo altre Chiese e altri Paesi no. Una volta che sono riuscite a sviluppare la tanto desiderata gravidanza, le coppie possono decidere di donare alla ricerca le blastocisti in sovrannumero mentre in Italia tutte le cellule uovo devono essere obbligatoriamente impiantate nell’utero della donna. Ma attenzione: se la legge italiana vieta agli scienziati di prelevare cellule staminali dalla blastocisti, non vieta però di importare dall’estero cellule staminali embrionali già prelevate da qualcun altro: grazie a questa scappatoia legale, i ricercatori italiani come Elena Cattaneo hanno la possibilità di portare avanti i loro sperimenti. Ecco perciò che la clausola contenuta nel bando del 2009 viene vissuta come una colossale ingiustizia: se da un lato vanifica, almeno in parte, anni di lavoro, dall’altro contraddice la legge stessa: che senso ha permettere l’importazione di cellule che poi, di fatto, non possono essere utilizzate a fini rilevanti per la salute pubblica? Elena Cattaneo, insieme ad altre due donne risolute come lei, Silvia Garagna, una collega di Pavia, ed Elisabetta Cerbai, prorettore alla ricerca scientifica presso l’Università di Firenze, decide così di fare causa al governo italiano. Motivazione: abuso di potere. L’avvocato che segue la vicenda è lo stesso del caso Englaro, Vittorio Angiolini.

”Il governo può stabilire quali sono gli obiettivi ma non può indicare la strada e gli strumenti tecnici, è lo specialista che deve decidere come fare” afferma Elena Cattaneo. “Data la preclusione insita nel bando, noi non abbiamo potuto partecipare al concorso e la nostra idea non ha potuto essere valutata: lo considero un danno.

La nostra causa è già stata respinta al Tar con motivazioni inverosimili ma noi non ci arrendiamo, andiamo avanti, anche se paghiamo di tasca nostra. Ma ne vale la pena, si tratta di una faccenda che ha implicazione sociali e civili enormi. E poi – sorride Elena con una punta di malizia - raccontare in giro per il mondo che ho fatto causa a Berlusconi mi dà una soddisfazione enorme! Scrivetelo, scrivetelo!” ci raccomanda. E noi lo scriviamo.

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